SESSIONE ORDINARIA 2004

(Seconda parte)

ATTI

della undicesima seduta

Martedí 27 aprile 2004 - ore 15

ADDENDUM I

DISCORSI I IN ITALIANO NON PRONUNCIATI


GUBERT

On.le Presidente, On. Colleghi

Nei momenti di inizio della vita umana e in quelli della sua fine  la cultura del nostro tempo smarrisce le sue certezze etiche. Ne è prova qui, nell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, il tentativo di cambiare il pronunciamento assembleare sull’eutanasia avvenuto nel 1999. Allora un divieto di eutanasia ed ora la sua ammissibilità a certe condizioni, sulla scia di quanto hanno già deciso Belgio e Olanda, contravvenendo alla indicazioni della nostra Assemblea.

Il valore, positivo, di libertà di ciascun individuo di come indirizzare la sua vita, viene spinto sino al limite del potere farsi togliere la vita, entrando in conflitto con altri valori, anch’essi positivi, di tutela della vita umana anche quando questa è più debole, socialmente non apprezzata, ma non per questo non più umana.

Personalmente ritengo che non rientri nell’esercizio della libertà il porre fine alla propria vita: la libertà è per rendere più piena la vita, non per toglierla. Quando si giunge alla determinazione di togliersela, o di farsela togliere, è l’oppressione a vincere, non la libertà.

E’ oppressione che può derivare da molte condizioni e che può apparire insostenibile. La risposta della comunità non può quella di prendere atto della disperazione generata dall’oppressione, ma quella del sostegno per far fronte alle difficoltà. Di fronte al grido, anche magari muto; dell’oppresso, di fronte alla sua disperazione che lo fa invocare la morte, non deve porsi l’accondiscendenza alla sua invocazione, ma l’aiuto a superare la disperazione. E non c’è mai una situazione nella quale non si possa dare aiuto, almeno quello psichico di sentire vicini e compartecipi coloro con i quali si è condivisa una parte, grande o anche piccola, della propria vita.

Non arrendiamoci, nella nostra società occidentale ricca ed evoluta, somministrando la morte a chi è senza speranza e la chiede! Poco importa se la chiede fermamente o se le chiede in un momento di debolezza o di abbandono o di solitudine: non è esaudendo tale richiesta che manifestiamo la nostra solidarietà con chi soffre, bensì respingendola e donando speranza.

Per chi è stato credente può essere la speranza della vita dopo la morte; per chi non lo è stato può essere la speranza di affrontare con coraggio l’inevitabile fine della vita terrena, fino al suo naturale spegnersi; per tutti è una speranza incoraggiata dalla vicinanza umana di chi resta.

Dare la morte al sofferente, all’oppresso che la chiede è non capire che, dietro a quella richiesta c’è in realtà una domanda di aiuto. Il grido estremo di invocazione della morte è il grido di chi non vuole essere solo e abbandonato. Uccidetemi! Se non rispondo no, vuol dire che di te mi importa poco, che non mi importa di averti vicino in ogni condizione, ma vivo.

Il documento proposto all’Assemblea è un arrendersi all’oppressione e alla disperazione. La nostra civiltà deve essere capace di altro!  Ho presentato, con altri, alcuni emendamenti, ma il testo andrebbe totalmente rivisto, con una diversa impostazione. Deve essere, quindi, respinto o, quanto meno rinviato in Commissione. Grazie.

GABURRO

La decisione di porre fine alla propria vita è sempre legata a situazioni “di malattia in stadio terminale, in presenza di sofferenze continue e intollerabili, senza alcuna speranza di vedere migliorare la situazione”; ma ancor di più è legata a situazioni di disperazione esistenziale, spesso di origine familiare e/o parentale, sociale. Una persona che giunge alla decisione dell’eutanasia, è già morta dentro, negli affetti e nelle relazioni. In questa situazione la vita fisica è solo un peso insopportabile. In questo senso non si dovrebbe parlare di “dolce morte” ma di “amara morte” o di “doppia morte”(fisica e interiore).

Parlando di eutanasia,si presume di parlare sempre di decisione presa dal paziente, non da altre persone in sua vece. Né i parenti, né il personale sanitario possono sostituirsi al paziente stesso: si dovrebbe, in questo caso, parlare di omicidio. Né si può presumere tale decisione.

La valutazione etica della collaborazione da parte del personale sanitario, di fronte ad una richiesta esplicita e definitiva del paziente, dipende dalla valutazione della decisione stessa del paziente. E questo vale sia per l’eutanasia attiva volontaria, sia per il suicidio assistito, sia per la cosiddetta eutanasia passiva. Se la decisione del paziente è considerata eticamente corretta, anche la collaborazione sarà corretta; se la decisione è considerata eticamente scorretta, tale sarà anche la collaborazione medica.

La decisione di porre fine alla propria vita è eticamente scorretta per motivi antropologici e, per chi ha un riferimento cristiano, anche per motivi religiosi. Da un punto di vista antropologico, l’uomo non si dà la vita; la vita gli viene data, o meglio donata. In ogni caso la vita è una sorpresa, un dono che la persona impara a gestire e a sviluppare. Ogni momento e ogni situazione della vita costituisce un nuovo sviluppo, un nuovo tratto di esperienza; quasi un nuovo frutto. Ogni momento sottratto alla vita è un impoverimento. E come la creatura umana non si dà la vita, così non può togliersela. La vita non è un bene disponibile.

Dal punto di vista religioso, al quale fanno riferimento i cristiani, la vita non solo viene da Dio, ma è Dio stesso. Dio è il signore della vita; vivere è partecipare alla vita stessa di Dio. E la vita che Dio dona alla creatura umana attraverso la coppia dei genitori non avrà termine. E’ destinata a restare per sempre, anche oltre la morte fisica. La morte, infatti, non è la fine della vita, ma solo il cambio dello scenario esteriore. Per queste motivazioni la decisione di porre fine alla propria vita con l’eutanasia è una “pretesa”, analoga a quella di darsi la vita; una pretesa moralmente scorretta.

Se questa è la valutazione morale della decisione per l’eutanasia, tale sarà anche la decisione di collaborare per la realizzazione di una simile decisione. Infine di fronte a situazioni che inducono un paziente a desiderare e a chiedere la fine della propria vita, si prospetta un altro tipo di sostegno, sia da parte del personale medico, sia da parte dei familiari e dei parenti del malato. E’ il sostegno della “presenza”, dell’accompagnamento, della “cura” che non è fatta solo di medicine e di terapie, ma, in primo luogo, di contatto, di relazioni vere e gratuite. Anche la presenza e il rapporto del personale sanitario è molto importante per non far sentire solo il malato, ma piuttosto per fargli percepire di “essere in buone mani”.

E’ vero che questo tipo di sostegno non può essere imposto dalla legge; ma, prima della legge esiste sia il diritto naturale, sia la deontologia dell’arte medica. Vale la pena ricordare, infatti, che la medicina è nata e si è sviluppata scientificamente per coltivare la salute e la vita, non per dare morte (anche se qualificata “dolce”). Concludendo una legge che rende accessibile la pratica dell’eutanasia, finisce per distrarre la volontà della società a cercare per vie alternative, più umane; in realtà si finisce per disumanizzare sia la vita, sia la morte.